R. Meynet, Qohélet, RBSem 31, Peeters, Leuven 2021 (342 p.)
Contrariamente alle apparenze, il libro di Qohelet non è disgiunto e non è un tessuto di contraddizioni. La sua composizione permette di evidenziare le tensioni che lo animano.
Due leitmotiv sottendono tutto il libro, quello della “nebbia” e quello della “gioia”. La nebbia è in definitiva quella della morte, mentre la gioia è quella della vita. Non è possibile conciliarli. La questione è come articolarli. Il ritornello della nebbia è molto frequente nel primo versante del libro, ma, una volta passato il centro (7,1-14), quasi scompare solo per riapparire all’ultimo momento. Al contrario, le sette occorrenze del ritornello della gioia, nel mangiare e nel bere, e nel lavoro compiuto, punteggiano regolarmente e in crescendo tutta la superficie del libro. Questo doppio itinerario contrario della nebbia e della gioia manifesta come la vita alla fine prevalga sulla morte.
Non più di chiunque altro, Qohelet non sa nulla di ciò che accade all’uomo dopo la sua morte. Ma una cosa che sa è che “il respiro ritorna a Dio che lo ha dato” (12,7). Si è soliti dire che a quel tempo in Israele non esistesse la minima credenza in quella che più tardi è stata chiamata “la vita eterna”. Tuttavia, pensare che una tale affermazione sia solo un modo di dire, che non significhi quasi nulla, sarebbe dare poco credito alle ultime parole di Qohelet che suonano come un testamento. La casa eterna dell’uomo non è la sua tomba.
La figura di Abele, il cui nome significa “vapore/nebbia”, domina tutto il libro. Il racconto della Genesi non riporta una minima parola che Abele abbia pronunciato durante la sua vita, né una che gli sia stata detta. Dopo la sua morte, non si dice che il suo respiro tornò a Dio. Si dice che il suo sangue gridò verso Dio dal suolo dove è stato versato. Non è vietato pensare che Qohelet gli presti la voce per far sentire il suo grido alle nostre orecchie.